FESTINI, “O DIAVOLO E A VECCHIA” e la spaghettata nell’ or…le. Con la festività di S. Antonio Abate, in paese iniziavano le danze fino al martedi’ grasso. La famiglia, che possedeva una stanza ampia da poter accogliere una trentina di persone, la metteva a disposizione per il festino. Si contavano una decina di sale da ballo per un paese di circa mille abitanti. Si ballava ogni sabato fino all’una, le due, le tre di notte. Le ragazze, puntualmente, erano accompagnate dalle madri, che sedevano vigili e attente ai lati della stanza. Erano valzer, mazurche.. balli innocenti e condotti a debita distanza. Sconosciuto il ballo della mattonella. Tale era la castigatezza dei costumi, che ogni manifestazione affettiva, anche tra fidanzati, era ritenuta riprovevole, un’autentica smanceria. Per indicare due fidanzati, si usava l’espressione “fanno l’amore”, espressione stupenda! Voleva dire progettare il futuro, sposarsi, mettere su famiglia, obiettivi di grande valore. Il festino era anche una buona occasione per creare legami affettivi. La presenza dei genitori era indispensabile per eventuali suggerimenti e valutazioni. Si sa, anche una volta, i matrimoni erano combinati. Per questo, sostiene qualcuno, erano duraturi. Aggiungo un particolare. In una società profondamente maschilista, una giovane che lasciava il proprio fidanzato anche per giusti motivi, difficilmente arrivava al matrimonio; la si considerava alla stessa stregua della minestra riscaldata. Protagonista della serata era il sonatore della fisarmonica. Precedentemente era in uso l’orghinetto, oggi oggetto di antiquariato e da museo… Ricordo alcuni nomi: Pierino De Angelis (d’a Fera), Fiore Valentini, Tullio Vittori, Pietro Grandicelli, Mondino De Venanzi. Su tutti per capacità e competenza primeggiava Luigi Neri. Il ballo, che generava particolare allegria, oggi diremmo di gruppo, era “o sartarello”, ballo popolare diffuso nelle Marche, regione di origine di molti castellesi. Immancabili erano i soliti cappellacci ed il bicchiere di vino. A qualche baldo giovane veniva propinato il cappellaccio farcito di stoppa a sua insaputa. “O DIAVOLO E A VECCHIA”. Anche il martedi’grasso era un giorno particolarmente atteso. Il pomeriggio era trascorso in allegria, quasi sfrenata, grazie alla comicità paesana, particolarmente ridanciana. Sull’imbrunire gran parte della popolazione si ritrovava nel Corso Umberto I in attesa del passaggio del diavolo e della vecchia. Il diavolo era coperto con pelli di capra; aveva la faccia abbruttita con il nero della fuliggine. La vecchia, un uomo travestito, indossava una veste logora e nera ed era accompagnata dal consorte, anche lui malmesso. Li seguiva un finto prete in cotta e stola, armato di secchiello e di aspersorio (un pennello da imbianchino). La coppia procedeva con un’andatura cascante e diffidente. All’improvviso, da una traversa del Corso, irrompeva il diavolo. Annunciava il suo arrivo il frastuono della catena composta da grossi anelli di ferro. Afferrava la vecchia riluttante e imprecante. Immediato l’intervento del prete esorcista, che pronunciava la formula magica: “Vade retro, Satana!” Lascio a voi immaginare l’ilarità di noi ragazzi, che seguivamo il diavolo con urla, imprecazioni, schiamazzi. Riporto due sketch che ben evidenziano la verve comica dei nostri antenati. Erano maestri nell’arte del matteggiare. In Piazza Margherita con tavole grezze si improvvisava un lettino da sala operatoria; vi si adagiava un paziente colpito da forti dolori addominali per essere sottoposto ad un immediato intervento. Primo chirurgo Natalino Martellini. Indossava un camice bianco, cosi’ i suoi assistenti. Afferrava un coltello da macellaio, ne osservava attentamente la lama; lo brandiva coram populo, poi lo affondava nell’addome del mal capitato da cui estraeva fegato d’agnello ed una lunga filza di salsicce. Un assistente specializzato era addetto alla trasfusione del sangue: collegava un piccolo budello al “o boccione” di vino ben in evidenza; lo porgeva al malato, che aspirava festosamente la bevanda.
Altra gag non meno esilarante: sopra un carretto tirato a mano, giovani dotati di un robusto appetito, divoravano spaghetti afferrati a piene mani in candidi e smaltati orinali, che ostendevano alla ciurma festante. A conclusione della serata, in Piazza Margherita, veniva bruciata “a vecchia”, cosi’ era chiamato il fantoccio fatto di paglia e di cenci. Tale tradizione, probabilmente di origine pagana, stava ad indicare la fine dell’inverno. Credetemi, grande era la partecipazione della popolazione, non minore era il divertimento per noi ragazzi. Si sa, tra il sacro ed il profano non esiste una netta distinzione; non di rado tra di loro esiste una reale complementarietà . Al martedi’ grasso seguiva il mercoledi’delle Ceneri. I fedeli, quelli che potevano, si recavano in chiesa, dove il parroco in perfetto latino ecclesiastico, segnando la fronte del fedele con la cenere, diceva:”Memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris”. Aveva inizio la quaresima: digiuno e astinenza dalla carne, un unico pasto nella giornata, un po’ di cibo al mattino e alla sera. Mi permetto un chiarimento: astenersi dalla carne vuol dire anche astenersi dall’attività sessuale, precetto ecclesiastico sconosciuto, pertanto disatteso allora, figuriamoci oggi.
Attualmente, a Carnevale, per le vie del paese sfilano mastodontici carri allegorici, di ottima fattura, che richiedono, per essere realizzati, intelligenza, tecnologia e molto lavoro. Sono attorniati da gruppi mascherati sempre in continuo movimento, guidati dal ritmo di musiche ad altissimo volume. L’intero paese è in festa. Un confronto con il passato? Non è possibile. Sono due mondi diversi. Eppure i festini, “o diavolo e a vecchia”, i cappellacci con la stoppa, la spaghettata nel vaso da notte erano quadri multicolori, originali, gustosissimi.
Professore Guerrino Martellini 16.02.2017
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