OLIO. SCRITTO DEL PROFESSORE GUERRINO MARTELLINI 08.12.2016
Il nostro olio d’oliva…è oro e non ha prezzo. E’ caratteristica e nello stesso tempo bella la tradizione della raccolta delle olive nel nostro paese. Andando indietro nel tempo, i nostri avi la facevano nei mesi di novembre e di dicembre, non di rado anche nel mese di gennaio. Erano mesi freddi con gelate e venti di tramontana. Armati di scale, usavano le mani; sconosciuti erano i guanti o altri attrezzi meccanici, che oggi ne facilitano la raccolta. Un focherello era di sollievo alle mani gelate. Per pranzo si gustava l’aringa affumicata condita con olio; in aggiunta si mangiavano le olive appena raccolte messe sotto la brace del focherello, aborrite da noi bambini perché amare come l’arsenico. Le olive raccolte venivano riposte sul pavimento di una stanza, per asciugarsi.
Il frantoio del paese, “a mola”, si trovava in Via G. Verdi; ne era proprietario sor Antonio Rosavini. La macina, veniva spinta dagli addetti ai lavori oppure fatta girare da due coppie di asini. L’olio prodotto non sempre era di alta qualità, perché le olive venivano raccolte eccessivamente mature, quindi mézze.
L’olio prodotto per tutte le famiglie castellesi era una sicurezza per l’intero anno. Si sa, le componenti della loro alimentazione erano, oltre all’olio, il grano, i legumi (lenticchie, ceci, cicerchie, fave, fagioli), il vino, la carne di maiale. Autentica dieta mediterranea. I vecchi ancora oggi dicono:” Avevamo poco, però non ci mancava niente.”
L’olio era conservato in una vettina in terracotta. Consideravo il termine “vettina” parola appartenente al nostro dialetto, invece è propria della lingua italiana, e deriva dal Latino Volgare. Nel condire veniva usato con particolare parsimonia. Per quantificarvi il suo valore, un bracciante agricolo, dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro, veniva retribuito con un litro d’olio, probabilmente di qualità scadente perché vecchio. Negli anni’60 il prezzo di un litro d’olio era equiparato al costo di un chilogrammo di parmigiano reggiano.
Non mi dilungo sulle proprietà nutrizionali dell’olio d’oliva, sicuramente a voi ben note. A questo punto vorrei evidenziare un’usanza: le olive erano messe ad essiccare in una sacchetta, che veniva appesa nella parte bassa del camino. Nel pieno inverno le olive essiccate e ben affumicate erano condite con olio, semi di finocchio selvatico e con bucce d’arancia. Si facevano apprezzare per il loro particolare gusto. Che dire della bruschetta? Il pane era raffermo, fatto in casa, cotto al forno a legna. La fetta di pane, abbruscata sulla bragia, veniva ben strofinata con uno spicchio d’aglio, poi si condiva con sale ed olio. Da anni i ristoranti ci offrono bruschette di tipi diversi per il loro condimento che varia, sono sempre la brutta copia della nostra inimitabile bruschetta. Altra tradizione culinaria erano le olive, di qualità nere, cotte in padella con olio, finocchio, con l’aggiunta di una spruzzata di aceto a termine della cottura. A proposito del sale, era sconosciuto quello fino. Ogni famiglia possedeva un mortaio di pietra, ‘o pistasale, per rendere fino il sale grosso per mezzo del pestello. Era monopolio di Stato. Tutti noi ricordiamo l’insegna “Sale e tabacchi” posta sulla rivendita. “O tabaccaro” del paese si chiamava “Giggetto.” Retribuì durante la guerra una madre di famiglia, che aveva vangato per un’intera giornata nel suo orto, con un chilo di sale. Sempre nell’ultimo conflitto, c’era chi con la bicicletta raggiungeva Tarquinia per rifornirsi di sale presso le saline. Era la borsanera. Le merci di uso comune erano razionate (grano, sale, tabacco…ed altro). La vendita clandestina, borsanera, comportava l’aumento dei prezzi. Per vivere era ben nota l’arte di arrangiarsi anche nel nostro paese, nonostante i divieti della legge.
Concludendo, mi permetto un suggerimento. Provate anche per una sola giornata a raccogliere le olive. Non esiste attività fisica più completa: tutti i muscoli del corpo sono sottoposti a continua sollecitazione. Inoltre, nel contatto diretto con Madre Natura, proverete nuove sensazioni, emozioni sconosciute nel nostro vivere quotidiano. Infine rivolgo un invito: assaporate la bontà di una bruschetta preparata secondo l’uso castellese, con o senza aglio, con l’olio impareggiabile delle nostre olive, proveniente ancora tiepido dal frantoio. Non dimenticate, il nostro olio…è oro e non ha prezzo, ma quanta fatica!
DIALETTICA CASTELLESE PROFESSORE GUERRINO MARTELLINI 09.02.2014
Si de Castello se hai preso o latte dalle zinne de tu’ madre; se hai magnato o pancotto, a giuncata, a zozza, a minestra co’ e pampinelle. Se a Natale hai magnato i spaghetti co’ zuccoro e i noci, i mustaccioli e i pampapati. Si de Castello se t’hanno detto: sciamergo, liecio, guio, mattelico, baciano. Si de Castello se hai magnato e baiocchelle, e buzzaraghe, e crognole; se hai fregato e cerase magnato e persiche.
Sei di Castello “se d’inverno hai magnato o ghiaccio delle trosce e i spadini d’a funtana Schizzi”. Mi riferisco agli anni ’50, quando eravamo ragazzi di strada e della piazzetta. Le vie del paese, non asfaltate, erano polverose d’estate e piene di pozzanghere (trosce) nei giorni piovosi dell’inverno. Le auto erano rare. Due erano le famiglie che ne possedevano una.Nelle nostre case modeste non c’era l’acqua corrente, non parliamo di televisione. La scuola elementare iniziava… alle 8,30 e terminava alùle 12,30. I doveri scolastici erano puntualmente disattesi…Pertanto grande spazio avevano i nostri giochi all’aperto. Ve ne elenco alcuni: a campanò, a cianchetta, a filetto, a scarigabotto, a tana, con le cicele, a buchetta con ossi di pesca,con palline di terracotta o di vetro. Strumenti dei nostri giochi: mazza e perì(gioco bellissimo), la mazzafionna,la taiola per catturare qualche malcapitato passero. Da non dimenticare lo schioppetto de sambuco con la pallina di stoppa masticata.I giochi erano stagionali. Quando soffiava la tramontana, andavamo a S. Ionardo, a riparo della rupe, dove si giocava a spada. Come vestivamo? sicuramente non “alla marinara”. Anche d’inverno indossavamo pantaloni corti. Eravamo “mocciolosi”, ma non ricordo un raffreddore o un mal di gola. Calzavamo scarponicini di vero cuoio con le “bullette”, il cui costo oggi si aggirerebbe sui 200-300 euro. Ricordo i calzolai Galileo, Peppò,Attilio; erano veri artigiani, che senza l’ausilio della macchina, fornivano un prodotto di alta qualità, frutto di abilità non comuni. D’estate il nostro vero Eden era il fosso della Mola. S’andava a piedi, a volte anche scalzi. Lungo la strada raccoglievamo “crognele e mori” conditi di polvere. Sapevamo riconoscere insetti come il ternamante( calabrone), il tatazzì (insetto ghiotto di pere mature). Grande era la gioia quando ci immergevamo nell’acqua del “bottagò”, sovrastato dal ponte vecchio a schiena d’asino. Il nostro costume da bagno? Lascio a voi formulare ipotesi. Si occupava il tempo anche pescando con le mani barbetti, ranocchie, girini. Erano demonizzate le bisce d’acqua. Tornati a casa eravamo sottoposti al solito interrogatorio; non di rado seguiva qualche “scappellotto”, perchè il fosso era pericoloso. Così siamo cresciuti e maturati, avendo poco, assaporando però la gioia di vivere, la spensieratezza, la libertà fatta di autonomia nel sapersi gestire , seppur in tenera età. Siamo stati ragazzi di strada, figli di quel mondo contadino, che negli anni ’60 ha fatto grande l’Italia.
MISTICANZA, MISCHIETTO.Con ogni probabilità sono due termini sconosciuti da molti di voi appartenenti alle nuove generazioni. Eppure fanno parte della storia del mondo rurale che ci ha preceduti. I due vocaboli si riferiscono all’alimentazione dei nostri vecchi (uso il termine in senso propriamente affettivo), al termine dell’inverno e nel periodo primaverile. Era il momento in cui si raccoglievano le erbe selvatiche per farne delle insalate appetitose e profumate, con particolari proprietà nutrizionali. Lo spunto mi è stato offerto da una trasmissione di Geo, poco tempo fa. Venivano elencate erbe selvatiche tipiche del nostro territorio con le relative ricette culinarie. Una in particolare mi ha colpito: le infiorescenze tenere dell’olmo (baiocchelle nel nostro dialetto) condite in insalata. C’era da inorridire per i nostri gusti, eppure veniva declamata la loro bontà.
Il crescione ( I lai nel dialetto castellese, i laghi nel dialetto nepesino) all’inizio della primavera costituiva il primo piatto d’insalata sulla tavola del nostro mondo contadino. Veniva raccolto nelle numerose sorgenti di acqua limpida e non inquinata delle nostre valli, da qualcuno impropriamente chiamate forre. Ha un sapore leggermente acidulo e pungente, pare che abbia anche proprietà afrodisiache, almeno così si crede. La primavera era il momento ideale per le insalate del prato. Vi elenco alcune erbe selvatiche che componevano la misticanza o il mischietto: pimpinelle (pampinelle), crispigno comune (i piccarelli), cresta di gallo (crista de gallo), caccialepre. Era un insieme di sapori particolari. Anche per questo il mischietto risultava particolarmente appetitoso. Le due erbe più apprezzate e ricercate erano le pimpinelle e le creste di gallo non soltanto per il loro sapore, ma anche per il loro profumo. Oggi è raro trovarle nei campi, pare che stiano scomparendo. Aggiungo un particolare. A tavolava, quando si mangiava il mischietto, specialmente i bambini non sempre rispettavano le regole del galateo. Ignorato l’uso della forchetta, ci si serviva dell’indice e del pollice della mano e con un pezzetto di pane si prendevano alcune foglie d’insalata da portare alla bocca. Pare che l’operazione rendesse più gustoso il cibo. D’altronde ancora oggi il gesto viene ripetuto con le patatine
Altra pianta di particolare interesse culinario era il finocchietto selvatico, componente essenziale nella minestra pasta e fagioli. Che dire delle frittate primaverili? La più appetitosa era quella con gli asparagi selvatici, seguiva quella con i rupoli, termine dialettale; sono le punte tenere del luppolo, i germogli. Ricordo che il luppolo viene usato nella produzione della birra, a cui conferisce il tipico gusto amarognolo. La più comune era la frittata di cipolle fresche tritate. In fine, sempre a primavera inoltrata, venivano tagliati gli steli floreali non ancora fioriti dell’aglio, i caratteristici “zanni “ ; lessati e passati in padella costituivano un piatto rozzo, sicuramente di cattivo gusto per molti; oggi farebbe inorridire. Sull’argomento, chiedete spiegazioni a coloro che non sono più giovani; potranno aggiungere particolari sicuramente interessanti. Altra ricetta, di particolare bontà, della nostra buona cucina contadina erano le fave fresche sgusciate e passate in padella con dadini di guanciale e cipolla tritata. Provare per credere! Che dire delle minestre profumate e nello stesso tempo sostanziose? Semplice la ricetta: fave fresche, battuto di lardo, cipolla tritata. In mancanza del pomodoro rosso maturo, si aggiungeva la conserva fatta in casa nella precedente estate; la pasta da cuocere erano i “tutoletti”. Altro piatto prelibato (una vera ghiottoneria anche per i bambini) era la minestra con i piselli freschi e riso, che a volte veniva sostituito con la pasta fatta in casa, erano i caratteristici “quadretti”.
Concludendo, mi viene in mente l’aforisma del grande filosofo tedesco L. Feuerbach: “L’uomo è ciò che mangia”. Egli sostiene: “Se volete far migliorare il popolo…dategli un’alimentazione migliore”. I nostri avi probabilmente ne avevano bisogno, anche se da mangiare non mancava nelle loro tavole. Certo, la loro era una dieta squisitamente mediterranea, composta da alimenti genuini e naturali, ma non equilibrata nelle sue parti. Andava dalla panzanella alla testa di maiale cotta al forno con le patate. Sull’argomento molto ci sarebbe da scrivere, sarà per un’altra occasione. Una cosa è certa: i nostri contadini, anche per la fatica, avevano un fisico asciutto e robusto, invidiabile; sconosciuta era l’obesità.
Sei di Castello…un po’ di storia. Fino alla metà del secolo passato le donne incinte andavano in campagna a lavorare sino al momento delle doglie. Per imprevisti potevano partorire in un campo di grano, sotto una “cerqua”, in un casaletto. Il parto generalmente avveniva in casa. La partoriente era assistita dall’ostetrica (a mammana). Il neonato, appena venuto alla luce, veniva attetamente esaminato: doveva essere”libero e non impedito”. Nel caso contrario…A proposito ho voluto accertarmi attingendo a più fonti ed ho avuto sempre la stessa risposta. La sentenza era:”Nun se guadagna da magnà”. Era una regola non scritta, propria della ferrea legge del bisogno. Per il debole non esisteva né la pietà umana né quella cristiana.La puerpera inizialmente veniva nutrita con il brodo di gallina, che aveva una funzione ricostituente e lassativa. Allattava il bambino anche oltre il settimo mese. ” Dava a zinna”, con assoluta naturalezza, all’aperto: nella piazzetta, per le scale, nella strada.In mancanza del latte materno si ricorreva al latte d’asina, oggi rivalutato dalla scienza medica.I neonati venivano avvolti con “fasciatori” dai piedi alle ascelle. Avevano la funzione, così si credeva, di fortificare i reni e di far sviluppare le gambe ben dritte.Anche allora ben noto era il rachitismo infantile, che comportava malformazioni ossee(fra i due mesi e i due anni). Era causato da carenza di vitamina D. Dopo la seconda guerra mondiale si ricorreva all’uso dell’olio di fegato di merluzzo, ricco di vitamina A e D. Il bambino veniva portato al fonte battesimale nelle prime due settimane di vita.Con ” a commare e o compare” si creava un profondo legame come di nuova parentela, che durava per tutta la vita. Erano loro a dare il nome al bambino.A proposito, quante stramberie! La puerpera non poteva uscire di casa per i primi quaranta giorni dal parto; a conclusioe di questo periodo “se nnava a nsantà”, che tradotto vuol dire “andava a purificarsi”. Si presentava al fonte battesimale con la candela accesa,dove il prete la benediceva.Tale rito richiama alla mente i l’uso ebraico-cristiano della purificazione, come indi cato nel Levitico. Anche la Madonna si recò al Tempio per la purificazione. Lo svezzamento del bambino avveniva con il pancotto: pane integrale bollito nell’acqua, condito con formaggio e olio. Nel primo anno non pochi bambini passavano a miglior vita. Cause del decesso potevano essere anche banali: febbre alta(i fantioli), infezione intestinale.Diffuse erano la difterite e la poliomielite. Addetta al trasporto della povera salma del bambino era una vedova di nome Teresa.Si metteva un “curoio” in testa, con la funzione di ammortizzatore, su cui poneva la piccola bara di poco peso.Per raggiungere il cimitero, si percorreva a piedi il piegaro, sentiero forse di origine trusca. Partecipavano al rito soltanto i familiari. Perdonatemi per aver scritto una pagina un po’ dolorosa della nostra storia castellese. Il mondo contadino aveva ben poco di romantico. Ci si rifugiava nella redenzione ultraterrena.Nella prossima pagina scriverò qualcosa di allegro: parlerò di campanacci e tubacci.
Si de Castello se hai magnato i fighi de S. Pietro, i brugiotti, i bottamazzo, i cucuzzoli,i sivolelli ( da essiccare), i fighi granati, i mejo der bigonzo. E prunga? E cosce de moniche pe o colore giallo come quelle de suore che nun vedevono mai o sole.C’erano e diavole violette e le prunghella ( pruno selvatico, biancospino ) magnate dai munelletti, verdi e aspre, ricchissime de vitamina C. Melle rinomate erano quelle ruzze.C’erano e limoncelle e quelle di S: Giuanni , le melluzze servatiche. Conoscete le paccasecche? Erano e melle tagliate a fette e seccate a o sole per l’inverno. E persiche? Scopparelle e sanguinose. Bone! Chiudo: S. Valentino castellese”Annà pe fratte!” Auguroni per tutti gli innamorati.
VENDEMMIA PROFESSORE GUERRINO MARTELLINI 10.10.2016
“‘A velinbia, gran festa e molta allegria”. Non si direbbe. Il detto era:” Chi dice vigna, dice tigna”. Richiedeva un lavoro continuo anche faticoso. Nell’intero arco dell’anno bisognava potare, vangare, “ scacchiare”, dare l’acqua ramata ed altro. Si implorava il Buon Dio, affinché le stagioni fossero propizie. A proposito per tre giorni consecutivi prima dell’Ascensione, si andava in processione per le principali strade di campagna salmodiando e cantando. Si invocavano Santi, Angeli… per ottenere un raccolto soddisfacente. Erano le rogazioni con la recita delle litanie maggiori. Ho ancora impressa nella mente un’ invocazione particolare e molto significativa:” A peste, fame et bello (la guerra), libera nos, Domine!” La vendemmia era comunque un quadro stupendo per non dire incantevole. Si raccoglieva il frutto di molta fatica. I colori dei pampini dei filari, i grappoli dorati, il profumo dell’uva pigiata nei “bigonzi” di legno, il canto delle donne creavano un’atmosfera gioiosa e particolarmente allegra. Erano ben accette anche le vespe e le api invadenti e ghiotte di mosto. A pranzo si consumava il tradizionale baccalà fritto in padella con aglio in camicia e semi di finocchio selvatico; al termine della cottura veniva spruzzato un po’ d’aceto. Sono i vecchi sapori a molti sconosciuti. Durante la vendemmia baldi giovanotti prendevano un grappolo d’uva e lo strofinavano sul viso di una bella e giovane vendemmiatrice: era la “mostarella”, oggi diremmo un simpatico ed innocente tuca-tuca . Per le vie del paese, polverose e non asfaltate, inesistente il traffico automobilistico, si udiva lo stridore dei “caretti” che trasportavano l’uva nelle cantine. In assenza delle pigiatrici meccaniche, allora sconosciute, l’uva veniva pigiata in tini di legno da giovani e non giovani con i piedi nudi. Anche quello era un rito colmo di allegria. La Chiusa era la località che produceva il miglior vino. Per necessità, non dirado, il vino veniva allungato con acqua, ed era chiamato “l’amezzato”; quello buono era conservato per le festività e per i periodi di dura fatica: falciatura, mietitura, trebbiatura. Impiantare una vigna richiedeva terreno, tempo e immane fatica. L’uomo scavava “una forma” con il piccone (o picchio), profonda un metro e larga 70 centimetri; dietro la donna spalava la terra ed il tufo rimossi. I vitigni messi a dimora erano vari, pertanto ogni anno si produceva un vino di gusto e sapore diversi; i due noti erano il Campagnanese (uva bianca) e il Bari(uva nera). Il vino prodotto, per le famiglie, era anche un valore aggiunto al loro modestissimo reddito. E’ bene sapere che fino agli anni ’50 il ricovero in ospedale doveva essere pagato dal singolo cittadino. Erano esenti le famiglie in possesso dell’attestato di indigenza (povertà) rilasciato dal Comune di residenza. Pertanto, all’occorrenza, si cancellava il debito vendendo una botte di vino. Che dire delle cantine? Erano scavate nel tufo a regola d’arte, luogo ideale per la conservazione del vino. Il fresco di cantina non ha nulla da invidiare a quello del frigo. Esse generalmente, nei giorni festivi, erano il luogo delle merende a suon di porchetta, anguilla marinata e vino a sproposito. A tarda notte i festaioli ne uscivano un po’ alticci per non dire del tutto brilli. Qualcuno ancora oggi, in età avanzata, rimpiange quel vino bianco frizzantino, fresco di cantina ,bevuto a “garganella”. La crisi economica e sociale, che oggi ci attanaglia, ha fatto riscoprire e rivalutare il mondo agricolo e l’importanza dell’agricoltura. In un’economia di sussistenza i nostri vecchi lavoravano per mangiare. Avevano un rapporto con Madre Terra direi quasi sacro. Si accontentavano di poco; la loro vita era semplice, il più delle volte condotta nell’assoluta ignoranza e superstizione;eppure, a mio modesto parere, è stato proprio lo spirito contadino che ha fatto grande l’Italia nel dopo guerra. Concludendo, l’allegra “velinbia” mi ha offerto lo spunto per far rivivere una piccola parte di storia di quel mondo che forse oggi a noi risulta incomprensibile.
VALLE SUPPENTONIA PROFESSORE GUERRINO MARTELLINI 04.07.2015
Lontra, capovaccaio, pastoravacche, falchi neri comuni, ghiandaia marina… altri uccelli ed animali selvatici nella Valle Suppentonia, la Valle delle Meraviglie. Chi lo direbbe? Fino agli anni ’50 del secolo scorso, nel fosso della Mola Vecchia (V. Suppentonia) in località Le Fontanacce, dove l’acqua era particolarmente limpida e non inquinata, viveva la lontra. Veniva cacciata per la sua pelliccia. Gli anziani, ultra ottantenni, mi hanno anche fornito i nomi di due cacciatori di allora, i quali, essiccate le pelli, le vendevano ad un pellicciaio di Roma.
Capovaccaio, nel nostro dialetto “l’oca gioconda”, stupendo avvoltoio migratore, il più piccolo d’Europa. Sicuramente vi è noto per la sua capacità di rompere anche le uova di struzzo con una pietra. Caratteristiche: becco giallo, piumaggio bianco, penne alari nere con macchie marrone, apertura d’ali cm 170. All’inizio ella primavera, arrivava dall’Africa per ritornarvi in autunno. Nidificava in qualche cavità delle nostre rupi. Dall’alto seguiva le mandrie allo stato brado nelle macchie, per nutrirsi di placente, anche dello sterco. I nostri butteri se ne servivano per localizzare il bestiame, da lì l’origine del nome “capovaccaio”. Essendo in via di estinzione in Italia per la distruzione del suo habitat, oggi si parla di ripopolamento anche nei nostri territori. Il suo inserimento sarebbe un valore aggiunto alla bellezza della nostra valle.
Pastoravacche : è il cervone, serpente mitico delle nostre terre. Può raggiungere la lunghezza di cm. 170. Lo riguardano leggende e fantasie squisitamente popolari. Si nutre di topi, ratti, uccelli. E’ ghiotto di uova, che ingoia intere; per questa sua abitudine, è un nemico dichiarato dei pollai. Brevi considerazioni sul vocabolo. Nel nostro dialetto “’mpastorà “è un classico esempio, per la grammatica, di corruzione lessicale. Deriva dal termine “impastoiare”. Veniva “’mpastorata” l’asina , ossia le si legavano le zampe anteriori affinché non si allontanasse dal prato dove pascolava; si spostava facendo piccoli saltelli a fatica. Tornando al pastoravacche, secondo la credenza popolare, si attorcigliava sulle zampe posteriori della mucche per succhiarne il latte. Oggetto del suo interesse non erano soltanto le mammelle delle mucche, ma anche i seni delle donne puerpere. E’ chiaro che sono pure leggende. Studi recenti hanno dimostrato che, per via della sua morfologia mandibolare, un serpente non può succhiare il latte da una mammella di una mucca, tanto meno dal seno di una donna addormentata. Il cervone è timido, assolutamente innocuo. Può essere aggressivo nel periodo degli amori; nel pericolo emette un sibilo (‘o fischio). IL suo morso, rarissimo, è senza alcun effetto. A primavera inoltrata, in campagna, non è difficile imbattersi nella camicia di una biscia; è la parte esterna della pelle rilasciata nel periodo della muta. Secondo una credenza popolare le vengono attribuite anche capacità terapeutiche: tenuta con la mano sulla fronte, cura il mal di testa. Ricordo la festività religiosa di S. Domenico a Cucullo, dove i cervoni (è una tradizione pagana) sono messi a coronamento della statua del santo. Il serpente non è il simbolo del male o del diavolo. Consideriamo il pastoravacche utilissimo, rispettiamolo; uccidendolo, danneggiamo la Natura, quindi noi stessi.
I falchi comuni neri. Erano numerosi e frequenti nelle nostre valli. Volteggiavano e planavano. Caratteristico era il loro stridore. Quando volteggiavano sopra le case del paese, destavano preoccupazione in quanto potevano sottrarre alla chioccia dei pulcini. A questo punto mi permetto una divagazione. La chioccia (‘a locca) covava le uova in un cesto ripieno di paglia, in casa, non nel pollaio. I primi pulcini nati venivano riposti in una scatola di cartone. Al termine della schiusa venivano nutriti con la mollica inzuppata di vino. Quando un pulcino dava segni di debolezza, la donna di casa lo sistemava al caldo del proprio petto, con la funzione specifica di incubatrice. Destava interesse il falco colombino. Al suo apparire i bambini erano soliti canterellare: “Falco colombino/famme un canestro piccolino./ Fammolo bello tonno/ che sennò te levo dar monno.”
Riporto alcuni nomi di uccelli migratori, sconosciuti ma stupendi per i loro colori. Il rigogolo o beccafico: piumaggio giallo e le ali nere; caratteristico è il suo verso “flautato”. La ghiandaia marina (in dialetto pica marina): si fa notare per le ali di color turchese. L’upupa, di foscoliana memoria, nota per il suo piumaggio variopinto. Ben caratteristica è la sua cresta. Nel nostro dialetto la si indica con un termine, direi, onomatopeico,” bubbola” che ben riproduce anche il suo verso. Vorrei ricordare altri animali selvatici: il gatto selvatico, la tortora selvatica, la lepre italica scomparsa, le allodole che a migliaia rallegravano i campi di grano. I rapaci notturni: l’allocco, il barbagianni, la civetta ed altri ancora. Voglio ricordare anche il lupo, predatore nobile che ha resistito per secoli nell’impari lotta contro l’uomo. Alla fine dell’800 l’ultimo esemplare fu ucciso nelle macchie di Faleria. Il Monte Soratte, non so dirvi il periodo, fu interamente disboscato perché era un rifugio sicuro per i lupi. Nel fosso della Mola Vecchia (Valle Suppentonia), sorprendentemente, sono presenti i germani reali, la folaga, (gallinella d’acqua), l’airone cenerino. L’argomento della nostra fauna e flora risulta talmente ampio, che andrebbe sviluppato in modo approfondito in un altro capitolo. Concludendo, mi permetto una considerazione. Noi insegnanti, nello studio della geografia, diamo sempre ampio spazio ad altri contenuti, trascurando purtroppo lo studio del nostro territorio, cosa importantissima.
L’INFIORATA DEL CORPUS DOMINI PROFESSORE GUERRINO MARTELLINI 28.05.2016
L’INFIORATA DEL CORPUS DOMINI (Nel nostro dialetto: a fiorata del Corpusdomine). Nel passato si caratterizzava per alcune peculiarità, oggi, sconosciute da molti. Ho voluto approfondire l’argomento ascoltando anziani in età avanzata, che mi hanno fornito notizie anche di particolare interesse. Devo dire che le donne hanno dato prova di buona memoria.
Si iniziava con la raccolta dei petali dei fiori. Si raccoglievano i fiori della ginestra comune, le infiorescenze abbondanti (o maggio in dialetto) della ginestra dei carbonari o ginestra da scope (in dialetto a scopia), i petali delle rose, i gigli di S. Antonio con corolle bianche intensamente profumate. i gigli di colore blu scuro, “o fiorò”, fiore giallo la cui pianta appartiene alla famiglia delle margherite, i petali dei papaveri rossi. E chi lo direbbe? Si raccoglievano anche i petali filamentosi del papavero da oppio (papaver somniferum), pianta spontanea in Italia. Non se ne conoscevano, per fortuna, le proprietà allucinogene. Con i petali essiccati si facevano infusi per facilitare il sonno dei bambini. In un paese, non dei nostri, il decotto veniva somministrato al mattino. La sera tornavano i genitori dalla campagna e trovavano i bambini ancora addormentati. Mi auguro che ciò sia un’autentica bufala.
Il verde ornamentale era composto da foglie di alloro (o lauro), di bosso (o bussolo), di salvia, menta romana, malva, “le foglie della Madonna” profumatissime, la “menticaria “ugualmente profumata.
Generalmente le donne erano le artefici della fiorata. Iniziavano di buon mattino, a volte anche di notte, per dar vita ai tappeti floreali nelle vie principali del paese. C’era una sana emulazione, anche collaborazione. La processione percorreva, come oggi, le vie principali del paese. Si distinguevano le bambine della prima comunione vestite di bianco, i maschietti con il vestito della festa, le figlie di Maria con il nastro azzurro appeso al collo con la medaglia dell’Immacolata. Seguivano le confraternite con le loro colorate e caratteristiche livree. La banda dava il tono all’intera processione. Le campane sonavano a doppio, in dialetto “sdoppiavano”, per l’intero percorso. Quattro uomini salivano sul campanile, afferravano il battaglio (in dialetto battocchio) delle quattro campane che dimenavano in continuazione per la durata della processione. Il suono era squillante, festoso, quasi assordante ma piacevole. Proprio per non dimenticare, cito alcuni testi dei canti religiosi eseguiti lungo il percorso della processione, A cantare erano le donne, a volte accompagnate dalla banda. Sono melodie facilmente orecchiabili e dedicate alla Madonna. Ricordo: Nome dolcissimo, nome d’amor/ tu sei rifugio al peccator/ fra i cori angelici e l’armonia… Salve del Ciel Regina… Andrò a vederla un dì in cielo, patria mia… Dell’aurora tu sorgi più bella… ed altre. Sono ancora oggi canti religiosi tradizionali che suscitano emozioni, sentimenti; appagano lo spirito ed il cuore. Gli anziani intervistati più volte hanno voluto evidenziare un particolare della processione: per l’intero percorso si godeva del profumo dei fiori, che restavano per la strada anche nei giorni seguenti. Il sole primaverile, i colori dell’infiorata di delicata bellezza, lo squillare festoso delle campane, la banda, i canti popolari creavano un’atmosfera magica Per tutti era un momento di gioia non solo spirituale. Ancora oggi la processione conserva il suo fascino. Alcune donne, non molte, raccolgono fiori che adoperano secondo la tradizione. Purtroppo in una società tecnologica, per il tappeto floreale o quadri floreali, si fa uso di segatura colorata con prodotti chimici come l’anilina, altamente inquinante e cancerogena, un autentico pericolo per la falda acquifera. Dovrebbe esserne vietato l’uso. A questo punto mi permetto un suggerimento. Torniamo alla tradizione dei nostri avi. Facciamo uso di ciò che Madre Natura di splendido ci offre. Riduciamo gli spazi come avviene in altri paesi e cittadine. Sarebbe sufficiente infiorare gli incroci delle nostre strade principali, affidare l’opera a chi possiede abilità pittoriche. Avremmo quadri floreali pregevoli, anche di valore artistico. Allora sarà doverosa la collaborazione di tutti. Aggirarsi per la campagna e raccogliere fiori, che sono la cosa più bella della Natura, fa bene al corpo e allo spirito.
Campanacci e tubacci PROFESSORE GUERRINO MARTELLINI 12.07.2014
Campanacci e tubacci! Premessa. Il campanaccio veniva appeso al collo della mucca dominante, quando la mandria viveva allo stato brado nella “macchia”. Era un mezzo per rintracciare il bestiame. Il campanaccio, oggi,è proprio della tifoseria da stadio. Il tubaccio,invece, era un secchio di latta dove i nostri pizzicagnoli conservavano alici salate, conserve ed altro. Cronistoria. Quando una vedova, anche per sacrosanti motivi, passava a seconde nozze( madre di figli minorenn…i, il diritto all’affettività, alla sessualità etc.), la cerimonia si svolgeva segretamente in chiesa alla sola presenza dei due restimoni, senza la celebrazione della messa. In paese, però, si sa tutto e di tutti.La sera stessa, presso l’abitazione della novella coppia, giovani e non giovani, amici e nemici degli sposi, armati di campanacci e tubacci, ci davano giù di santa ragione…spinti anche da una forte esaltazione collettiva. Immaginate il frastuono, il chiasso, il fracasso. Era un autentico tumulto avvertito in tutto il paese. Lo spettacolo poteva essere una sequenza -capolavoro per uno stupendo film neorealista.Questa, fino agli anni ’50, era una consuetudine ritenuta,anche allora, da alcune persone di buon senso, riprovevole e biasimevole, con una punta di sadismo.Nulla si sa sull’origine goliardica di tale tradizione. Ad una breve analisi del fatto, possiamo dedurre che fosse una forma di disapprovazione. La donna vedova doveva restare vedova. Era una società profondamente maschilista.La donna doveva sopportare tutto, anche il marito violento e manesco .
Tornando all’evento nuziale,poteva capitare che i due sposi, intelligentemete, uscissero di casa ed offrissero agli scalmanati sonatori pastarelle, buschettini, fette di pane farcite di prosciutto, accompagnati da un buon bicchiere di vino casareccio.Un particolare, Il prosciutto veniva apprezzato quando la parte grassa era maggiore di quella magra.Diremmo oggi:erano gusti plebei. Nel pieno dell’allegria, si gridava a ripetizione:” Evviva gli sposi!”E tutti vissero felici e contenti. Concludendo, ho scritto una pagina della storia dei nostri nonni o dei vostri bisnonni, quando Castello contava neanche mille abitanti. Le vie di sera erano semibuie. Non era nata ancora Mamma TV. C’era un’economia di sussistenza, si lavorava per mangiare. Fortunatamente le cose cambiarono negli anni ’60 e ’70 quando Castello, con le cave di tufo e con le ceramiche, divenne un paese ricco ricco. Questa è un’altra pagina della nostra storia, che va conosciuta, analizzata e studiata. Forse, anche per questo, la biasimevole tradizione dei campanacci e tubacci non esiste più.
Halloween castellese PROFESSORE GUERRINO MARTELLINI 30.10.2014
Halloween castellese. Pur non conoscendo la tradizione celtica, anche noi da bambini prendevamo una zucca ( ‘a cocuzza),la intagliavamo per riprodurre occhi, naso e bocca. All’interno ponevamo una candela accesa, e l’effetto era assicurato. La similitudine con un teschio richiamava alla mente il mondo della morte , anche dell’occulto. Sconosciuto il detto” Dolcetto o scherzetto”. Tutt’altro! Le nonne raccomandavano ai loro nipotini di andare a messa nel giorno dei Morti, al…trimenti nella notte seguente, avrebbero avuto, nel pieno sonno, la visita di qualche defunto dispettoso, che avrebbe tirato loro i piedi. Nel giorno della Commemorazione dei Defunti, i sacerdoti erano obbligati a celebrare tre messe.Per noi chierichetti era una vera fatica. Il celebrante indossava una pianeta nera; la lingua usata era il Latino. Perdonatemi il riferimento personale: ricordo la melodia del “Requiem aeternam…” del canto gregoriano. La musica esprimeva dolore, pianto…un autentico lamento. Ben noto a tutti i fedelli era l’inno “Dies irae, dies illa”. Ho conosciuto persone anziane semianalfabete , che lo recitavano a memoria, con alcune “modifiche” , perché ignare della lingua latina. Noi ragazzi, alunni della scuola elementare, poco interessati all’al di là e ai problemi esistenziali, potevamo goderci due giorni di vacanza.
GHETTO PROFESSORE GUERRINO MARTELLINI 26.11.2015
Ghetto, un tassello in più e di particolare rilievo nella storia di Castello. Più volte ho cercato di darmi una spiegazione sull’origine del toponimo con cui viene chiamato il nostro antico centro storico. Il vocabolo per associazione di idee, così insegna la psicologia, richiama alla mente il Ghetto di Roma, di Venezia, di Varsavia, quindi gli Ebrei. In una occasionale e fortunata conversazione sull’argomento con il sig. Piero Brunetti, studioso dei nostri territori e frequentatore degli archivi dei nostri comuni e della nostra diocesi, ho appreso che nel 1492 un numero considerevole di ebrei si stabilirono nello Stato Pontificio. La notizia risultò un’autentica ghiottoneria sul piano culturale. Per farla breve, mi passò una fotocopia di un articolo della docente universitaria Pina Baglioni, pubblicato sulla rivista “Il Sabato”, 19 gennaio 1991, e gliene sono particolarmente grato. Riporto integralmente una parte dell’articolo: “Il re Ferdinando il Cattolico, nel 1492, mette dunque moriscos ed ebrei di fronte ad una alternativa: o convertirsi al cattolicesimo o emigrare. Circa 150mila ebrei emigrarono. Le famiglie più potenti, soprattutto i mercanti, si trapiantarono nello Stato Pontificio. Il Papa vendette loro molte terre attorno a Nepi, Veroli, Cori, Castro e Volterra.” Che io sappia nei paesi del nostro territorio non esiste un “ghetto”. Pertanto si può ben dedurre, ipotizzare che nel nostro paese, allora era un borgo di pochi abitanti e territorio nepesino, vi arrivarono e si sistemarono gli ebrei provenienti dalla Spagna. A conforto di tale ipotesi riporto alcuni cognomi del nostro paese di origine ebraica: Darida , Mariani. Il cognome Darida, da David (rotacismo: la v di David si trasforma in r :David = Darid=Darida. Il cognome Mariani, da Maryam = Maria. Ho consultato il sito “Cognomi italiani di origine ebraica”. Con sorpresa, anche meraviglia, ho rilevato altri cognomi castellesi riportati dal sito: Galletti, Graziani, Costantini, Moretti, Neri, De Angelis. Non sono un grado di dirvi in base a quali criteri si ritengono di origine ebraica i cognomi precedentemente indicati.
Siamo nel 1500, epoca dei Farnese. Si accede a Ghetto passando sotto l’arco con la sovrastante torretta rifatta interamente nel 1895. Sul lato sinistro dell’arco abbiamo lo stemma dei Farnese dove sono ben evidenti i sei gigli; sul lato destro lo stemma del papa Paolo III, della famiglia dei Farnese: i sei gigli, tiara, chiavi decussate, incrociate, ( la X latina = decem = dieci ). A questo punto ritengo opportuno fornirvi brevi notizie sui Farnese. Nel 1500 appartenevano all’ aristocrazia romana. Estesero il loro dominio sui possedimenti che andavano dal lago di Bolsena al mare. E’ da ricordare Pierluigi Farnese, padre di Giulia e di Alessandro, questi futuro papa Paolo III. Giulia Farnese ebbe una formazione culturale molto rara per quei tempi: conoscenza delle lingue, preparazione di tipo amministrativo, praticò la danza. A quindici anni sposò Orsino Orsini di Bassanello, oggi Vasanello; era brutto d’aspetto, privo di un occhio (monoculus ), butterato. Lei era di straordinaria bellezza; fu chiamata Giulia la Bella, oggi diremmo “bella da morire”: niger oculus, aveva la più bella capigliatura che si potesse immaginare. Brillava per grazia ed era di carattere piacevole. A Roma fece amicizia con Lucrezia Borgia, “ la nepesina”. Il papa Alessandro VI se ne innamorò pazzamente, provando per lei una morbosa gelosia. La minacciò di scomunica se fosse tornata con il marito Orsino. Gli diede una figlia. Secondo alcuni studiosi, il papa Borgia era affeto da satiriasi, smania patologica di attività sessuale, corrispondente nella donna alla ninfomania. Lasciò numerosi figli legittimi e non. Grazie ai buoni uffici della bella sorella Giulia, Alessandro Farnese a 25 anni fu nominato cardinale; non aveva ancora ricevuto il sacramento dell’ordine sacro. Non tardò a farsi sentire Pasquino; recita la “pasquinata: “Alessandro tu devi a tua sorella/ Giulia il cardinalato, ché la gonna /alzò…” Voltaire nel suo Candido scrive: “ Un piccolo male, un grande bene.” Nella popolazione era diffusa l’allegra e nello stesso tempo pungente allitterazione: “Cardinal Farnese, Cardinal Fregnese.” Uomo dotato di particolare intelligenza conseguì una preparazione umanistica, giuridica ed amministrativa di altissimo livello. Forse anche per questo nel 1534 fu eletto papa con il nome di Paolo III. A Nepi fece costruire le grandiose mura di cinta, purtroppo attualmente deturpate dalla vegetazione spontanea che le priva della loro bellezza e maestosità. Il suo stemma mastodontico troneggia sopra Porta Romana. Gli vanno riconosciuti alcuni meriti. Richiamò i missionari francescani, che nell’America Latina, per eccesso di zelo, battezzavano gli Indios senza un’adeguata catechizzazione. Non volle che gli indigeni fossero fatti schiavi. Comprese la gravità e la portata della Riforma Protestante. Nel 1542 indisse il Concilio di Trento. Fu grande mecenate. Protesse artisti come Michelangelo, Raffaello, Tiziano. Abbellì Roma. Il suo pontificato risultò particolarmente attivo e ricco di peculiari iniziative. Nel 1537 conferì al figlio Pier Luigi Farnese la contea di Ronciglione. Nel documento sono riportati esplicitamente i nomi dei comuni: Caprarola, Nepi, Castel Sant’Elia. In questo si ha una spiegazione storica dei due stemmi, che ornano l’arco di accesso al nostro Ghetto. A proposito di Pier Luigi Farenese era diverso nelle sue tendenze sessuali; viene ricordato per lo stupro di Fano ; ne fu oggetto il giovane vescovo della città, ne risentì e morì quaranta giorni dopo.
Sopra l’arco sorprende l’epigrafe “ HINC(H) LAETI VIVIMUS OMNES “. Nel vocabolo HINCH l’incisore ha aggiunto un’H non richiesta nella lingua latina. Vi do la traduzione: “ Da qui…( in questo luogo) viviamo tutti felici.” Sarebbe interessante conoscere l’autore dell’epigrafe, in particolare le motivazioni di tanta felicità. I nostri cugini nepesini sostengono che nel nostro ghetto venivano ospitati i matti di Nepi, in quanto luogo da cui era impossibile evadere. L’archivio dei Farnese riguardante Castel Sant’ Elia pare sia conservato nel Comune di Valentano. Sono certo che una sua consultazione ci fornirebbe notizie di interesse non solo storico ma anche sociale. C’è una via nel nostro antico borgo, Via delle Carceri, luogo di pena non solo per qualche reo castellese, (modesto era il numero degli abitanti), probabilmente anche per i malandrini dei paesi a noi vicini.
Ho voluto in breve ed in modo superficiale darvi un quadro relativo al momento storico riguardante il nostro Ghetto nel scolo XVI. Il riferimento a personaggi della Chiesa, sicuramente discutibili anche per le loro nefandezze, ci spinge a qualche riflessione. E’ ben evidente come papi e cardinali, il clero in generale, avessero interessi esclusivamente terreni, Non erano asceti né uomini di Dio. Provenivano dalla ricca aristocrazia. Amavano i piaceri del letto e della tavola. Seppero, però, contribuire allo sviluppo e alla diffusione di quel grande movimento che fu il “Rinascimento”, a cui l’intera Europa deve molto. Nel film “Il terzo umo” di Orson Welles il protagonista osserva che l’Italia ha avuto guerre, terrore e complotti per 30 anni sotto i Borgia, ma in quel periodo ha prodotto Michelangelo, Leonardo ed il Rinascimento, mentre la Svizzera ha avuto 500 anni di pace ed democrazia, ed ha prodotto l’orologio a cuccù. Nel ventesimo secolo l’intera umanità ha conosciuto gli orrori di due guerre mondiali…ed altre immani tragedie che non elenco. A paragone i peccati dei papi rinascimentali dobbiamo considerarli veniali.
Concludendo, il Ghetto che oggi noi vediamo, trasformato e deturpato, non è quello autentico dei secoli passati, con la sua patina d’antico. Avevamo un tesoro, di rara bellezza, e lo abbiamo distrutto con le nostre mani.
Pagina aggiornata il 11/10/2024